Nella sua drammaticità, il 2020 ha trasformato l’intero sistema economico e ne ha accelerato la transizione verso il futuro.
In questo anno di pandemia, infatti, la tecnologia ha rivestito un ruolo da protagonista, permettendo alle aziende e alle persone (sia quelle più predisposte all’innovazione, sia a quelle un po’ più restie) di far fronte a scenari imprevisti e mai visti prima dalle nostre generazioni.
Tuttavia, superata la prima fase “emergenziale” della pandemia, in cui l’innesto di tecnologia e la digitalizzazione sono state percepite più come una necessità che reale opportunità di crescita, questo “new normal”, a cui ci affacciamo, deve costituire il momento nel quale uscire da questo mindset (di emergenza, appunto) e iniziare a pianificare un vero e proprio percorso di digitalizzazione a trecentosessanta gradi.
È oltretutto notizia fresca “di stampa” che il digitale sarà la bussola di riferimento per il nuovo Recovery Plan e, quindi, driver delle nuove risorse destinate alle imprese.
È tutto un equilibrio sopra la follia, cantava Vasco Rossi. E oggi lo è ancor di più, in un momento che ci troviamo a dover costruire una nuova normalità, un nuovo equilibrio dove molte cose, necessariamente, sono destinate a cambiare.
La domanda, quindi, è: arriveremo davvero a un nuovo centro di gravità dal quale ripartire e ricostruire le nostre vite, le nostre attività, la nostra comfort zone?
Ovviamente, non abbiamo la risposta certa, ma alcuni strumenti ci convincono più di altri e ci spingono a pensare che la transizione sarà meno imprevedibile di quanto possa sembrare: smart working, trasformazione digitale e centralità dei dati.
Al centro dell’attenzione di tutte le forze sociali vi è, naturalmente, il lavoro, in sé e per sé considerato e nella sua dinamica nella vita di ciascuno di noi.
Lungi da noi schierarci a favore o contro questa nuova modalità di lavorare; quel che è certo, è che stiamo assistendo a un profondo mutamento del paradigma lavorativo, che d’ora in poi sarà necessariamente fondato su strumenti di comunicazione e di collaborazione digitale, e su nuovi tool per la gestione dei processi operativi e decisionali da remoto (pensiamo a tutte le APP che stanno spopolando: Slack, Asana, Trello, GSuite, per dirne alcune).
Le tecnologie digitali ci aiutano a rimanere connessi e a comunicare e, in un momento dove la distanza è una necessità, aiutano a colmare il vuoto che si è creato attorno a noi.
Se, quindi, la maggior parte della produttività (italiana, europea, mondiale) è stata affidata allo smart working, allora dobbiamo saper cogliere l’opportunità data da questa crisi pandemica, di reinterpretare, ognuno a proprio modo e a qualsiasi livello (organizzativo, tecnologico, culturale), non solo il nostro modo di lavorare, ma anche e soprattutto i nostri assetti organizzativi, la nostra comunicazione interna ed esterna, i rapporti con il nostro network (partner, clienti, fornitori), con modalità sempre più digitali e “diffuse” e sempre meno tradizionali.
Smart Working e Digital Company
E se lo smart working, nella sua accezione più genuina e sana, sarà il nuovo modello di lavoro, ibrido e dinamico, a cavallo tra il fisico e il digitale, tra reale e virtuale (esempio lampante saranno i Digital Innovation Days quest’anno, in edizione phygital), questo processo di trasformazione non potrà non coinvolgere, più in generale, tutti i processi aziendali.
Se la prestazione lavorativa si spinge verso una modalità così fortemente collegata al digital, infatti, non c’è davvero momento più propizio di questo per operare una concreta trasformazione verso la digital company – che non è l’azienda che ha “semplicemente” digitalizzato i suoi processi, liberandosi dalla carta e procedendo verso l’automazione, ma è soprattutto quella che, così facendo, genera e valorizza i suoi dati, ponendoli alla base di tutte le sue decisioni.
Se, infatti, già in epoca prepandemica un processo decisionale data-driven era fonte di un vantaggio competitivo perché elemento distintivo sul mercato, oggi invece rappresenta un strumento, se non l’unico, sicuramente fondamentale per sopravvivere alla crisi, rimanere (ed eventualmente anticiparne le mosse) sul mercato e garantire un buon livello di servizio ai propri clienti e trovare nuovi prospect.
Mettere i dati al centro dei processi decisionali, quindi, e farsi guidare da questi, mappandoli e seguendoli nel loro percorso all’interno dei processi aziendali, permette di analizzare il proprio processo di business dall’inizio alla fine, valutandone le performance non in base a previsioni, opinioni, interviste o ricerche su campioni, ma su dati reali, secondo logiche che qualcuno potrebbe definire scientifiche.
Ciò, di fatto, potrebbe favorire interventi correttivi (potremmo dire di “manutenzione predittiva”, come i dati raccolti da sensori nell’Industria 4.0), dare spunti per la riprogettazione di singole fasi o task e, di conseguenza, la loro ottimizzazione.
Process Mining
L’obiettivo del process mining (così è definito questo processo di mappatura e tracking dei dati) non è solo quello di garantire maggior trasparenza sull’esecuzione dei processi, ma anche quello di ridurne i rischi, garantire la compliance alle varie normative settoriali, identificare aree automatizzabili e, più genericamente, riprogettare i processi al fine di adeguarli al “new normal” oggetto del nostro interrogativo iniziale, ottenendo peraltro più qualità, efficienza e costi maggiormente sostenibili.
Per le aziende (ma anche per il settore pubblico e per i liberi professionisti) è quindi fondamentale un approccio predittivo, legato ai dati.
Ciò se si pensa, e ci avviamo verso la conclusione, all’atteggiamento dei mercati, sempre più caotici, incerti e imprevedibili, ora anche condizionati dalle disruption della pandemia.
Raggiungere un livello elevato di maturità digitale è quindi, per tutti gli attori presenti e che si affacciano al mercato, una esigenza non più differibile, per potersi muovere con nuova fiducia anche in una situazione complessa come quella l’attuale.
Beatrice Pirovano
Brand Ambassador Digital Innovation Days